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July 3, 2019 5 mins
L’infanzia è un acquerello fertile in cui spesso nascono le nostre passioni, quelle che in noi metteranno le radici più profonde a sviluppo futuro, quelle che non potremo proprio esimerci dal seguire, dall’annaffiare, dal coltivare, quelle che, come in questo caso, metteranno ogni mattino foglie nuove da nuovi rami e fiori che si faranno frutti e diventeranno un lavoro, il nostro che ci definirà, per sempre.

Lontani, lontanissimi, in quegli anni Trenta in cui in cielo scoprivano l’esistenza di Plutone e in uno scantinato veniva prodotta la prima pellicola in Technicolor, in quegli anni Trenta in cui Hitler diventava cancelliere tedesco, e in America c’è la Grande Depressione, e in un cinema di Atlanta viene presentato in anteprima mondiale Via Col Vento, così lontano ci porta un uomo che almeno una volta tutti abbiamo amato perché è stato capace di spiegarci – con Superquark in televisione, nei suoi libri – storie complessissime – come l’origine dell’universo, le particelle sub-nucleari, l’evoluzione dell’umanità – con uno sguardo così semplice da confondersi con il nostro.

Nato a Torino il 22 dicembre 1928, papà medico psichiatra antifascista che durante la Seconda Guerra Mondiale salvò tanti ebrei dai lager insegnandogli a fingersi malati, anche pazzi, cosa importa, così da poterli nascondere nella sua clinica, e mamma che invece «voleva a tutti i costi che studiasse musica», oggi ha un asteroide intestato a suo nome.

Gioca con noi a Chiudi gli occhi, torna bambino, Piero Angela.

«Sono stato un bambino molto educato, non ribelle, disciplinato: a scuola andavo bene e se rivedo la mia infanzia è stata un’infanzia semplice, normale, non come tanti scrittori che raccontano dei loro tormenti di ieri che li perseguitano poi per tutta la vita. I miei ricordi sono legati al fare i compiti, alle lezioni, all’essere ubbidiente. A quell’epoca eravamo molto solitari, non c’era niente di quello che c’è oggi, neanche la tv, a dar spettacolo era la radio, si giocava poco, non si usciva mai, men che meno la sera, gli amici venivano a casa. Avevo un padre all’antica, poi, quando sono nato aveva già 54 anni, faceva il medico: la sera andava a letto alle 9 per alzarsi alle 6 del mattino ed era un’età, la mia, in cui si aspettava di crescere, e man mano venivano le cose, banali. Ricordo i pochi giocattoli, due l’anno, uno a Natale e uno al compleanno. Ricordo il Meccano sul quale mi divertivo molto. Il cavallo a dondolo, la divisa del corazziere, insieme al cavallo a dondolo. Erano questi gli oggetti del mio tempo. Poi un giorno i miei mi hanno regalato l’Enciclopedia dei ragazzi. Dieci grandi volumi, dentro un mobiletto con le porte scorrevoli, dove c’era il libro dei perché: il più usurato, quello che andavo a leggere di più, lì è nata la curiosità di sapere, di informarmi. E poi con un’insegnante delle Elementari, che portava in classe esperimenti di fisica sull’elettricità, l’elettrolisi, sulla crescita delle piante, tutte cose che mi hanno lasciato un segno. Se chiudo gli occhi e torno bambino vedo questo».

Un programma di Lavinia Farnese
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